marzo 20, 2017

L'IPER-LINGUISMO di JOHN HAWKES

Può un romanzetto di meno di trecento pagine suggerire tanti spunti di riflessione come Arance Rosso Sangue di John Hawkes?

Qualche lettore penserà forse che io sono la reincarnazione dell'autore. E' già il quarto post che dedico a questo romanzo del 1970, riedito da Minimum fax nel 2010 (in precedenza era stato edito da Einaudi, nel 1974, col titolo più appropriato di Arazzo d'amore).

Solo qualche mese fa ho riletto Pastorale americana di P. Roth. Non m'è venuta voglia di scrivere neanche una riga. E se mi proponessi di farlo, come compito a casa, scriverei un post, un solo post, sull'ambiguità (ideologica). Invece con Arance Rosso Sangue basta che legga un brano e mi parte l'embolo della scrittura critica.

Una constatazione, di struttura. In un precedente post minimizzavo il parere di un critico che parlava, per questo romanzo, di una spiazzante sequenza di flashback. Sì, ci sono, è vero, dei frequenti anda e rianda fra passato (prima del suicidio di Hugh) e presente (dopo il suicidio di Hugh). Ma spiazzante sequenza... che esagerazione! La prima metà del romanzo ne conta sette. Non mi sembra uno sproposito.
Piuttosto, la considerazione può essere giocata in un altro modo, più pregnante: questo romanzo è tutto fatto di piccoli episodi, come una costruzione di mattoncini lego. Tessere di un mosaico, abbastanza a se stanti, insomma.

L'ultimo che ho letto ricorda il gusto decadente di certo Luchino Visconti. Ed è il racconto del faticoso varo di una barca, che viene spinta giù per la collina rotolando su dei ceppi, fra marmaglia urlante, vecchi, il prete in tonaca e svariati pastori nerboruti piccoli e neri. Mentre Cyril e Catherine, che sono prossimi a riconciliarsi, grandi e bianchi, osservano la scena come due semidei.

Naturalmente la lingua è sempre esageratamente fiorita. Ma non è il fiorito retorico e melenso del D'annunzio del Piacere.
E' il fiorito, appena appena ironico,  di un certo... iper-linguismo...



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