dicembre 21, 2014

ABBASSO LA FICTION? W LA FACTION?


 "La realtà è viva, viva la realtà" titola il Corriere della Sera di domenica 21 dicembre (inserto La Lettura). 
L'articolo è di Paolo Di Stefano, il quale fa una onesta rassegna delle posizioni emergenti in Italia (ma non solo) che invocano, per la letteratura, un ritorno alla realtà.



Tendenza non nuova, lo sappiamo, che data, come precisa Di Stefano, dalla fine degli anni '90, con il ritorno al reale di scrittori come Bettin, Onofri, Veronesi, Corrias (in questo l'articolista sposa, senza precisarlo però, la periodizzazione suggerita da Wu Ming 1).

Ci chiediamo solo perché Di Stefano, nello storicizzare questa ripresa di interesse per la realtà, non citi i giovani scrittori dell'inizio anni '90 che una distorcente istanza di marketing ha accomunato sotto l'etichetta di CannibaliRimossi, ripudiati, sconfessati? Eppure di realtà ce n'era a quintalate in quegli scrittori. Basterebbe pensare al loro padre letterario, cioè al Tondelli di Altri libertini (1980), che non si può certo spacciare per post moderno (inteso come occupatore di uno spazio prevalentemente manierista, metanarrativo, combinatorio, fantastico...). Certo, in quei romanzi non c'era la realtà giornalistica di Gomorra, che secondo una certa new age di critici e scrittori è il vero, unico, tanto atteso, spunto di svolta. C'era piuttosto il disagio di una certa gioventù perduta, che viveva e soffriva da punk a'bbestia anche quando frequentava il DAMS.

Neo-realismo?
Oibò no, precisa Di Stefano. Il neorealismo rimanda ai padri fondatori, agli intellettuali impegnati, di cui facciamo volentieri a meno  ancora oggi che l'eco della polemica contro l'impegno e la letteratura "naturalistica" scatenata dal Gruppo 63 ormai si è spenta.

Caso mai bisognerà parlare allora di letteratura-verità, parafrasando El Paìs, che di recente ha lanciato lo slogan delle Novelas de verdad: i libri più interessanti prendono ormai spunto dalla storia o dalla cronaca (persone ben informate della Terra di Mezzo ci dicono che Truman Capote si sta sbelicando dalle risa nella sua tomba).



Più che documentare questa new age, Di Stefano è interessato a collocarla in un "luogo", anche se questo nuovo realismo, che non è neorealismo, sfugge alle definizioni, perché lambisce la cronaca e il reportage e si propone, più che come fiction, come faction (dall’ingl. faction composto da fact , fatto, realtà’ e fiction, narrativa, romanzo).

L'idea più interessante, fra quelle citate da Di Stefano, è l'idea che nel mondo letterario si stia prefigurando uno spazio allargato, aperto a svariate combinazioni di realismo, autofiction, fiction, faction e chi più ne ha più ne metta.

Ecco, qui ci sentiamo meno perplessi.
Che ci sia bisogno oggi di una nuovo modo di scrivere romanzi (odiata e abusata parola, di cui non si riesce peraltro a fare a meno) è incontrovertibile.
Che questo nuovo modo prenda o non prenda ispirazione dalla realtà, ce ne potrà fregar di meno.
Che questo nuovo modo si muova su territori di confine, inaugurando una nuova stagione sperimentale all'insegna del METICCIATO... beh questo ci sfagiola già un po' di più.



Ma questo ritorno al mestiere di scrivere (=inventare, sperimentare, lavorare sul testo, forzare i limiti del testo etc. etc.) non deluderà le aspettative di coloro (e sembra che siano tanti) che oggi, per avere qualche drizza, si rivolgono alla faction?

Credo che a metter  le cose in questa maniera si rischia solo di incasinare tutto.
Cosa c'entra la legittima esigenza della gente (me compreso) di capire cosa sta succedendo in Italia e nel mondo con l'opzione per una letteratura più di realtà che di finzione?
Si spera forse di riuscire a decodificare il presente quale ci viene riportato quotidianamente dalla cronaca attraverso le pagine di un romanzo?

La cosiddetta realtà, forse potremo cominciare a comprenderla un tantino di più smettendo di rinunciare all'opzione della storia, ovverosia al confronto con il passato e con il lungo periodo. Inoltre potremmo trarre ispirazione da certi maestri, come Norberto Bobbio, che non si accontentavano della nuda cronaca.

Per quanto riguarda la letteratura, che anche quando è mimesis non è conoscenza del reale, perché si possa tornare a trastullarsi con questo lussuoso giocattolo, che apre a una conoscenza di tipo sottile (esemplare Le onde di Virginia Woolf) occorre che gli animi siano un po' meno angosciati.

Un'agorà dominato dalla paura e dall'incertezza non giova al letterato, come non giova al lettore.




dicembre 20, 2014

UNA NARRATIVITA' TROPPO CONVENZIONALE



C'è una categoria del romanzare che non riesco a mettere bene a fuoco. Ce l'ho qui, sulla punta della lingua. E gli ho trovato anche un nome Narratività.  Che non c'entra con la narratività dei semiologi, perché ha una connotazione molto più prosaica.  Ma di questa narratività casereccia non ho il coraggio di servirmene apertamente, perché sospetto che si potrebbe chiamarla in un altro modo, forse più appropriato.
Ma questo modo più appropriato latita nella mia memoria. O perché è seppellito sotto chissà quante coperte o perché nella mia memoria non c'è punto. Se avessi letto di più di teoria letteraria, forse saprei cos'è quel quid che mi sfugge e che il romanzo della Laura Di Falco (Una donna disponibile Sciascia editore1959, Verbavolant 2014) mi ha istillato nella mente, lasciandolo tuttavia avvolto nella nebbia.



Della Di Falco se n'è già parlato in questo blog. Mi sono accinto a leggerla dopo aver scoperto che una sua nipote, una sicilianuzza che io immagino giovane giovane, ha messo su di recente a Siracusa una piccola casa editrice e fra le altre cose si è messa a rieditare i romanzi di questa scrittrice, ahimè, dimenticata.

Ho scritto ahimè a ragion veduta?

Questo non sono ancora in grado di dirlo. Certo la storia è poco riguardosa nei confronti di quegli autori che non si sono guadagnati gli allori sui campi di battaglia di mezzo mondo. Se non hai partecipato alla campagna d'Egitto, alla campagna d'Italia, alla campagna di Russia difficilmente diventerai un maresciallo dell'impero. La Di Falco ha partecipato a qualche battaglia: due volte finalista allo Strega, pluritradotta, malgrado avesse dei padrini illustri, come Maria Bellonci, Eugenio Montale, Palazzeschi, Comisso, Brancati... nel corso del tempo è stata pensionata. Diciamo che questa scrittrice, nata sotto i cieli del neorealismo, è riuscita a restare sulla breccia fino agli anni '76, sopravvivendo alla neoavanguardia e al '68 (il che non è poco...). Poi basta.

Di lei si dicono cose molto lusinghiere sul web, che di recente è stato sensibilizzato, come si è detto, dalla riedizione dei suoi romanzi. In genere si sottolinea la sua capacità di raccontare la condizione femminile, facendo di lei una femminista ante litteram.




Dal mio punto di vista questo aspetto conta relativamente.
Naturalmente non ho ancora letto abbastanza della Di Falco per sbilanciarmi. Tuttavia fin dall'incipit di Una donna disponibile (1959) ho provato una sensazione quasi fastidiosa, una specie di prurito al naso. 

Da qui è nata la categoria della narratività, intesa a modo mio, che non so se  considerare una pensata originale e, soprattutto, non se se considerare una pensata meritevole di essere divulgata.

Ma cosa c'entra la Di Falco con la narratività intesa a modo mio?
C'entra, perché il suo romanzo fin dalle prime righe mi ha suggerito l'idea che la Di Falco scrive in una maniera troppo convenzionale. Per l'esattezza, adotta uno stile narrativo in cui l'esplicito ha la meglio sull'implicito.

"Elena pensò che le sarebbe piaciuto sapere le parole di quella canzone e uscì dal cancello sulla strada abbagliante. Rivide ancora il sole dell'estate e fu ripresa da quell'improvviso senso di nostalgia con cui quel motivo aveva spezzato a un tratto la sua noia."

Eccola qui l'onniscente terza persona della narrativa tradizionale, in cui il narratore "si atteggia a macchinista e regista e giudice ed esecutore del testo" (JamesWood, Come funzionano i romanzi, Mondadori 2010).

Ed ecco anche il discorso riportato o discorso indiretto, nel quale ciò che passa per la testa al personaggio viene riferito come discorso fatto dal personaggio a se stesso, ma transitando attraverso la connotazione autoriale di quel pensò che toglie flessibilità alla narrazione.

Beninteso, c'è pensò e pensò.
Ecco un esempio, tratto da un testo che lascerò nell'anonimato, in cui l'uso del pensò, declinato in modo tendenzialmente ironico da parte del narratore onniscente, non genera un effetto altrettanto convenzionale.

Nessuna risposta. Ma è usuale che sua madre faccia così, da un po’ di tempo. Chissà come andrà a finire. Francesca se lo chiede, anche se lo sa benissimo. Non a caso ha studiato da infermiera. Così come sa benissimo che non è il caso di procrastinare ancora la decisione che lei stessa ha caldeggiato (condivisa in pieno dalla sorella maggiore), dopo aver ascoltato il dottor Recchia, il loro medico di famiglia: “la mamma dev’essere ricoverata”.




dicembre 13, 2014

LO SCRITTORE, IL CRITICO, IL LETTORE


 Lo so, lo so... il tema è stato già sviscerato e da gente con i controcoglioni (Lector in fabula 1979). Ciò non toglie che anche un flaneur possa -nel suo piccolo- dire qualcosa di interessante.

Sto leggendo Horcynus Orca di Stefano d'Arrigo (1975). Molto lentamente, molto lentamente. Ma non perché il mastodontico romanzo mi "saturi". Me lo gusto. Tutto qui. E dunque sono ancora alla prima "scena", quella in cui le femminote, come un coro greco, sulla spiaggia, nulla facenti, in atteggiamento di prefiche che piangono l'affondamento dei loro ferry boat, svillaneggiano il protagonista, 'Ndrja Cambrìa, reo di fare una certa resistenza al coito.



È bastata questa prima scena perché io mi sentissi in una commedia latina. L'andamento lento, dialogico, forbito del romanzo... mi ha ricordato chissà perché il berbero romanizzato Publio Terenzio Afro, commediografo delle classi alte dell'Urbe.


Probabilmente si tratta di una mostruosa cappellata. Ma in questo momento indosso i panni del lettore e dunque tutto mi è lecito.
Chissà. Un'altra persona, leggendo le stesse 40 pagine introduttive di Horcynus Orca, potrebbe, che ne so, instaurare un parallelo fra le femminote e le sue antiche compagne di classe. Un terzo lettore o una lettrice (magari sicilianuzza) potrebbe invece gustare il rosolio della parlata vernacolare di D'Arrigo.
Tutto è possibile, quando c'è di mezzo il lettore.

È possibile persino  che qualche lettore non si accorga di niente e legga tutto il vasto tomo come lo leggerebbe un Mammut, limitandosi a saziarsi della trama (nel caso di Horcynus Horca mi sembra piuttosto problematico. Si veda a questo proposito, per cogliere la complessità dell'opera, il sommario analitico compilato da Marco Trainito)


E qui veniamo, per dissonanza, al critico.
Leggete l'introduzione, intitolata Congetture per una interpretazione di "Horcynus Orca" di Walter Pedullà a questa ultima edizione dell'opera (Rizzoli 2003) e capirete che mente superiore (rispetto al lettore qualunque) è il critico.
Oddio, Pedullà a volte esagera con il virtuosismo (si veda in particolare Walter Pedullà racconta il Novecento, BUR 2013). In questo caso direi che si è attenuto a un pregevole equilibrio. Ma ha riempito la sua prefazioni di considerazioni così dense e di così vasto respiro che alla fine viene da dire: questa non è una lettura "critica" dell'Horcinus. Questo è un pezzo di bravura saggistico-letteraria. Questa è scrittura alta. È arte. È epica.

È servita a me la prefazione di Pedullà?
Sì, mi è servita a farmi sentire un po' una merda. E perciò non l'ho neanche terminata. Ci vediamo dopo, Pedullà. Lasciami leggere D'Arrigo in santa pace e poi tornerò alla tua di lettura, che sicuramente è più articolata, di sostanza, plausibile.

Però poi mi sono sovvenuto di certe cappellate che hanno preso i critici in un passato non remoto. E mi sono reso conto che i critici, per quanto più forbiti, più documentati, più preparati, possano farsi influenzare dai loro umori personali, dai loro vissuti, dalla loro weltanschauung almeno quanto i lettori (seppur in maniera un tantino diversa).



Avrete notato che il critico parteggia quasi sempre per qualcuno?

O parteggia per Pasolini. O parteggia, viceversa, per Calvino.
O parteggia per Gadda. O parteggia per Volponi.

Questo significa che il contributo del critico è da buttare sprezzantemente alle ortiche?
Neanche per sogno.
Basta non pensare che in critico veritas.

A questo proposito mi sovviene il titolo di quella FINZIONE (il termine viene usato espressamente in sostituzione dell'abusato romanzo e in contrapposizione al forestiero fiction) che mi sta tanto a cuore e di cui abbiamo parlato già più volte: Pietro Cabrini & Rolando Solidago, Vero quasi vero.
Sono sicuro che chi ha avuto la buona sorte di ricevere in regalo la finzione non si è fermato ad analizzare l'immagine che c'è in copertina, né tanto meno l'ha messa in relazione con il contenuto della finzione.

Ah, che distratto questo lettore!
Ma cosa mai penserà, il lettore, quando legge un libro?


dicembre 09, 2014

IL ROMANZO se va avanti così RISCHIA DI BRUTTO




Michail Bachtin dice delle cose molto interessanti in Epos e romanzo (ora in Estetica e romanzo, Einaudi, 2001). Cose apparentemente ovvie, ma a cui chissà perché non ci si pensa mai.

1. dei grandi generi letterari solo il romanzo è più GIOVANE della scrittura e del libro.
2. dei grandi generi letterari solo il romanzo è pensato per la percezione muta, ovverosia per la LETTURA.
3. di tutti i generi letterari solo il romanzo non ha un CANONE come gli altri generi letterari, ovverosia non ha un canone di genere.
4. lo studio degli altri generi letterari è analogo allo studio delle lingue morte, mentre lo studio del romanzo è analogo allo studio delle lingue vive (cioè giovani).

Si possono sottoscrivere in pieno tutte queste considerazioni?


In linea di massima mi stanno bene i punti 1/2/4. Il punto 3 invece mi lascia perplesso, perché ciò che rende monotono il panorama letterario attuale mi sembra che sia proprio il manierismo di genere in cui si sono rifugiati troppi romanzieri (va da sé non è la prima volta che succede). 

Da quando non capita di incappare in una formula nuova, in un bel vorticoso giro di valzer capace di rimescolare le carte in tavola?




Anche i migliori non si impegnano abbastanza. Quando lo fanno, sfidano la lingua e i suoi limiti, ma non sperimentano nuove regole per il genere. La struttura del romanzo è più o meno sempre la stessa (c'è la possibilità naturalmente che mi sbagli, perché non è pensabile che una sola persona legga tutto ciò che si pubblica).

Sembra che il romanzo sia sul punto di morire perché troppi lo frequentano pedissequamente e perché il genere,  pur non avendo un canone definito una volta per tutte, figlia oramai solo dei cloni. 
(non l'ho letto, ma credo che tratti di questo il saggio di Alfonso Berardinelli, Non incoraggiate il romanzo, Marsilio 2011).




Un Ministero della Cultura che si rispetti dovrebbe finanziare la sperimentazione romanzesca. Non perché un nuovo romanzo sia in grado di determinare impennate nel PIL. Ma perché se qualcuno escogitasse un nuovo romanzo, così, per il gusto di innovare, per il piacere di stupire, vorrebbe dire che c'è ancora speranza e che non tutti gli scrittori sono dei mercenari prezzolati. 





dicembre 07, 2014

VI SPIEGO meglio cos'e' VERO QUASI VERO



Vero quasi vero, la finzione di Pietro Cabrini & Rolando Solidago, sta per uscire.
Avete notato che non abbiamo usato il termine Romanzo e che non abbiamo usato il termine Fiction?

Il termine Finzione esiste da tempo, visto che discende dal latino. Ma di solito, in italiano, non viene usato per denotare un prodotto letterario. Viene usato per lo più nel suo significato negativo di simulazione. Segue il significato (positivo) di atto immaginativo o di narrazione di eventi immaginari, usato più raramente. Fiction invece è un anglismo detestabile, che letteralmente significa finzione e dunque indica anche una creazione dell'immaginazione (letteraria). Solo che rispetto all'equivalente italiano si è allargato a dismisura di significato e indica qualsiasi finzione, da quella letteraria alla telenovela.
Romanzo infine è un termine abusato, che sarebbe meglio buttare nel cestino della carta straccia, in attesa che il genere riprenda quota.


(Ale Senso)

In sintesi, Vero e quasi vero è un romanzo che non vuole chiamarsi romanzo e che non vuole aver niente a che fare con la fiction.

Detto questo, si tratta di vedere che colore attribuire a questa finzione.

"Prego?"

Avete capito benissimo. La finzione, quando è di genere, di solito è abbinata a un colore:  nera o rosa o gialla. Cioè appartiene al sotto genere del giallo hard, della letteratura sentimentale o della letteratura poliziesca.

Invece una finzione, se non è di genere, allo stato attuale delle cose un colore non ce l'ha.

Con Vero quasi vero gli autori ritengono che sia giunto il momento di dare un colore anche alla finzione non di genere (alias romanzo). E questo perché essi ritengono che il lettore abbia diritto di sapere in anticipo che tipo di finzione andrà a leggere.

Se vi capiterà di mettere le mani sul libro, noterete che la sua copertina è di un verdino tenue, che non è verde prato, non è verde bottiglia, non è verde marcio. E' un verde luminoso, con una puntina scarsa di giallo.
In altre parole è una copertina fredda (il verde ha dentro il blu), ma non troppo, grazie a quel giallo che tende a prevaricare il blu.

Questo colore descrive a meraviglia la finzione scritta a quattro mani da Cabrini e da Solidago. Vero quasi vero viaggia in una certa dimensione tutta sua, che non ha niente a che fare con la realtà dei giorni nostri, ovvero la brutta realtà di questo paese mal messo.



Badate bene: quello di cui stiamo parlando non è una favola.
Anche in Vero quasi vero l'OGGIDI' con i suoi problemi e le sue emergenze filtra nella pagina scritta. Magari non filtra dalla porta principale, ma senz'altro filtra in forma minore dalle fessure degli scuri.

Tuttavia non è dell'oggi che questa finzione vuole parlare. E non è neanche su un avvenimento particolare (intreccio) che la finzione si concentra.
Vero quasi vero, con questo titolo un po' pirandelliano, racconta situazioni a metà fra il verosimile e l'inverosimile, fra il reale e l'immaginario. Non ha eroi e non ha cattivi. Non ha buoni che soffrono o anime belle. Non ha mediocri e non ha perdenti.

Vero quasi vero si muove su un terreno quasi astratto. Dove la trama, volutamente inconsistente, è un pretesto per raccontare. E dove il racconto è un pretesto per creare immagini.


(A. Gorky)


POSTFAZIONE


Quello che ho raccontato su Vero quasi vero è vero solo in parte (e non poteva essere che così). La finzione non è infatti astratta come ho preteso di far credere. Difficile scrivere un romanzo "astratto". Molto difficile. 
Vero quasi vero, tuttavia, all'astrazione si avvicina per un elemento che contraddistingue soprattutto il primo racconto, quello lungo: la vicenda  viene narrata  spezzettata, come se chi legge guardasse attraverso un vetro che si è rotto in tante piccole schegge. Si crea in tal modo un effetto caledoscopio che ricorda alla lontana la realtà scomposta del cubismo analitico.


(Juan Gris)

dicembre 05, 2014

DI COME LA TRAMA SI POSSA ANCHE BYPASSARLA

  
Il pittore espressionista tedesco Hermann Warm, uno dei coregisti del famoso Il gabinetto del dottor Caligari (1920) affermava che "i film devono diventare disegni vivi".

E come disegni vivi si può ancor oggi vedere il film Il Golem,  girato da Paul Wegener nel 1920.



Si tratta della seconda edizione espressionista di questo film (la precedente versione realistica del 1915 è andata perduta) e oggi la possiamo visionare restaurata.





Proprio così. In questo film l'impatto della scenografia e delle singole riprese è così forte che ci si scorda di seguire la trama, per altro ormai arcinota (così com'è arcinota la trama del dottor Frankenstein, emulo del Golem). E ci si concentra sui "disegni vivi" dei singoli fotogrammi.

Fin dalla prima sequenza, in cui si vede il rabbino praghese Löw  che scruta le stelle con un improbabile telescopio, in cima a un improbabile torrione, la trama, grazie a questo film, si svela per quello che è: un  ingrediente fra i tanti e neanche il più importante.

Un artificio che tutti noi - chi più chi meno - abbiamo ciucciato col latte dell'infanzia e che di conseguenza abbiamo inglobato così a fondo nei nostri neuroni da farlo diventare non un canone fra i tanti - e nello specifico il canone del realismo commerciale - ma il canone tout court (diciamo le cose come stanno: a noi tutti, nei nostro momenti peggiori, ci interessa soprattutto il lieto fine e soprattutto ci interessa il brivido che ci dà l'attesa del lieto fine).

Sarà merito delle bislacche scenografie espressioniste. Sarà merito dei primi piani e del gioco delle luci e delle ombre, tutto così lontano dalla tecnica cinematografica in voga oggi. Ma questo film lo si gode scena per scena, fotografia dopo fotografia, come se fosse una galleria di quadri. Senza pensare un solo momento alla sequenza, all'intreccio, alla storia, alla trama.


(Nosferatu di Murnau)

Domanda: saremmo in grado di provare la stessa cosa con un romanzo? Cioè con un "testo" fatto di parole e non di immagini.
In cui le parole magari ci  portano a percorrere strade in cui non si viaggia veloci e spediti verso la meta come è solita viaggiare la trama di un romanzo commerciale. O perché interrompono il filo conduttore e diluiscono la trama. O perché di trama non ce n'è punto?

Diciamo la verità. Quando la parola autorale ci suggerisce di percorre strade che non portano acqua al mulino della trama, a quasi tutti ci prende un... cordiale e violento fastidio! Da cui la difficoltà di leggere i cosiddetti romanzi sperimentali. Non perché siano più difficili degli altri, ma perché non rispettano il codice impresso nel nostro DNA di pigri lettori di storielle.