luglio 13, 2015

SCRITTORI editori di se stessi

Scrittori senza editore. O meglio, scrittori editori di se stessi.
Che sia l'ormai vecchio e glorioso self-publishing?  No, è una cosa leggermente diversa e adesso vi spieghiamo perché.

Intanto, chi sono i due autori che praticano entrambi l'auto-pubblicazione? 
Non facciamo nomi, per il momento. Però possiamo dire che il più giovane è un gommista. Ragazzo colto e sveglio, che a vederlo di primo acchito in tuta diresti che è uscito da un romanzo di Caldwell. Ma che poi, quando parla di letteratura ti sorprende come se avessi di fronte a te il fantasma di Giacomo Debenedetti.



L'altro, il più vecchio (e quando diciamo vecchio diciamo un tipo con i capelli grigi, magro, alto, ma indiscutibilmente del secolo scorso) si autodefinisce il romanziere di Pietra de' Giorgi.
I due si sono letti a vicenda, anche se il più vecchio non ha ancora avuto l'agio di affrontare il nuovo romanzo del più giovane. E si stimano a vicenda.
Per il momento finisce qui. Ma in realtà non finisce affatto qui, come vedremo presto.
Precedenti del più giovane: ha pubblicato il suo primo romanzo con i tipi di un piccolo editore e ora, seguendo l'esempio del più vecchio, ha deciso di auto-pubblicarsi.

Precedenti del più vecchio. Dopo aver interpellato alcune agenzie di editing, che in quella fase gli sono state utili, ha bussato alla porta di qualche editore scelto a caso. Poi si è stufato di aspettare e ha fatto la classica cosa che ormai fanno tutti: ha pubblicato la prima versione del suo primo romanzo (che prima si chiamava Palcoscenico rosa e ora si chiama Vero quasi vero) su AmazonContrariamente a quanto strombazza Amazon, la cosa non ha prodotto nessun risultato. Per cui, dopo un anno, ha rotto con gli e-book e ha deciso di auto pubblicarsi su carta, utilizzando i servizi di un piccolo tipografo di Pavia che pratica costi contenuti.

Fine per il momento di una storia che sembra semplicemente ribadire il vecchio adagio piccolo è bello, ma che in realtà,  a detta dei due dissidenti, è un gesto di rivolta che potrebbe aprire scenari nuovi.




Autolesionisti, puritani, snob... dicono alcuni malintenzionati parlando di loro. Con tutte le Scuole di scrittura che ci sono in giro... Basterebbe un po' più di modestia...
Ecco, per l'appunto. 
Attorno al mondo dei nuovi bisognosi (cioè i bisognosi di pubblicazione) è fiorito tutto un indotto, che va dai concorsi letterari di provincia (se non di paesello), ai finti editori,  alle scuole di scrittura creativa (da Baricco in poi), alle agenzie di editing, alle 10 cose da evitare quando si scrive un romanzo (che ha avuto un notevolissimo successo su Facebook, quasi superiore a quello di Medjugorie).
Indotto che è una pacchia per gli intellettuali di provincia alla ricerca di visibilità e per gli editori in asfissia commerciale. 

Tutte queste cose ai nostri due autori non interessano affatto, anche se, rifiutandole, rischiano di rimanere nell'oscurità dell'anonimato.


Primo, perché sanno già scrivere, e piuttosto bene. Secondo, perché bazzicando il vero mondo della Letteratura (che vuol dire letture, letture, letture, scrittura, scrittura, scrittura e una certa esperienza di vita vissuta, nonché una fervida fantasia) sono arrivati alla conclusione che tutti questi bancarellari della cultura andrebbero presi a calci nel sedere e allontanati istantaneamente dal Tempio.



Morale della favola. Per il momento pubblicano in proprio, dalle 20 alle 50 copie. Senza ISBN, perché tanto non vanno in libreria. E regalano i loro romanzi o li fanno pagare 7 euro. Scegliendo accuratamente i loro lettori.

In futuro contano di coalizzarsi e mettere su una task force che faccia "la guerra" al sistema della letteratura, con i suoi stanchi riti, i suoi valori obsoleti e la paccottiglia di molte delle sue pubblicazioni. 

marzo 01, 2015

SCRITTURA INDUSTRIALE COLLETTIVA: un FLOP?



Basta il fatto che In territorio nemico sia stato scritto da 115 e rotte mani per farci spalancare la bocca ed esclamare: 

"Per Giove, questo sì che è un grosso passo avanti. Allora tutto non è perduto. Il romanzo non è morto... alleluia!"?



Ironia a parte, non credo proprio che si debba misurare In territorio nemico sulla base del METODO con cui è stato composto (SIC, scrittura collettiva industriale).

Anche perché il metodo non è poi così originale, trattandosi, in fondo, di una versione sofisticata e letteraria di un social network.

Sono troppo tranciante? non credo, dato che hanno cominciato loro. O per lo meno, ha cominciato uno di loro, Michele Marcon, che nei confronti degli autori more singulo (fra i quali io mi annovero, anche se il mondo come autore non mi ha ancora del tutto identificato) si è espresso così:

Tu che credi di essere un (grande) autore chiuso nella tua stanzetta, e ti fai un sacco di pippe mentali mentre scrivi un (grande) romanzo rivoluzionario che probabilmente non leggerà mai nessuno (e che altrettanto probabilmente rimarrà un tentativo velleitario). Ecco, tu non sei più nessuno. Tu non esisti più. Tu, stereotipo del (grande) autore, oggi sei un operaio che insieme ad altri operai deve collaborare per riuscire a realizzare un prodotto. Certo, questo prodotto non è mica un prodotto qualsiasi, ma è un’opera dell’intelletto – che dico – degli intelletti!

Un simile disprezzo di tipo giacobino (con echi operaistici che rincarano la dose) ricorda il Gruppo '63 quando sfotteva i romanzieri del momento, etichettandoli come Liale. Personalmente a me ricorda altri scenari più cupi, ovverosia i crucifige dell'epoca sessantottina, quando il Movimento se la prendeva con gli intellettuali, a prescindere da colore, ideologia, età, ruolo etc. Bastava che tu studiassi cose che non c'entravano con la classe e/o scrivessi un romanzo ed eri etichettato come libidinosamente borghese.

Non c'è niente da fare. L'Italia era settaria ai tempi di Dante ed è rimasta settaria ai tempi di Michele Marcon!

Ma lasciamo perdere il SIC e vediamo se questo In territorio nemico merita tutta la grancassa che lo ha accompagnato. In altre parole, valutiamolo per quello che è. E cioè un romanzo.

Prima constatazione: l'opera parla della Resistenza (dall'8 settembre al 25 aprile). Ma non ha niente a che fare con i romanzi di allora (Calvino, Fenoglio, Pavese, Vittorini...) che narravano la resistenza quando il cadavere era ancora caldo. 
Difatti, correttamente, gli autori lo definiscono un romanzo storico e su questa strada potremmo anche seguirli, visto che l'opera ottempera ai requisiti indicati dalla Historical Novel Society. Ovverosia è stato scritto almeno cinquant'anni dopo gli eventi descritti ed è stato scritto da autori che all'epoca di tali eventi non erano ancora nati, e quindi hanno dovuto documentarsi su di essi.




Le vicende ruotano intorno al destino di tre personaggi: Matteo Curti, un sottufficiale di marina che diserta e attraversa l'Italia devastata dalla guerra nel tentativo di raggiungere la sorella Adele, imparando a combattere e prendendo coscienza della situazione del paese. Adele Curti, una giovane sposa borghese che, abbandonata dal marito, sopravvive nella Milano bombardata entrando in contatto prima col mondo operaio, poi con quello dei Gruppi di Difesa della Donna e addirittura con quello dei GAP; suo marito Aldo Giavazzi, un ingegnere aeronautico che, per paura di venire deportato, si nasconde nella cascina di famiglia scivolando in una progressiva e visionaria follia.

Valutato come romanzo storico, l'opera ti fa rimpiangere i romanzi che storici non lo sono e nella fattispecie quelli del cosiddetto neo-realismo. Ovvero le opere "autentiche", scritte con passione, da un autore in qualche modo coinvolto nei fatti che narrava (anche se era un autore singolo e come tale era incline, secondo Marcon, a farsi un sacco di pippe. Cosa che nel caso di Cesare Pavese poteva un tantino essere anche vero).

Più che romanzo storico In territorio nemico si direbbe in realtà un romanzo d'azione, scritto in modo convenzionale. Scorrevole, non c'è niente da dire. Ma è un romanzo in cui i personaggi... che ci sono e hanno tanto di nome, cognome, sesso, professione... quando pensano non ti danno affatto l'impressione di farlo e quando agiscono non ti danno affatto l'impressione di agire sullo sfondo di una realtà sociale in movimento, in tensione, com'era quella del '43-44-45.
E' vero, c'è la fabbrica, c'è la linea gotica etc. etc. Ma queste realtà dell'epoca in cui si sono svolti i micro eventi del romanzo, nel romanzo ci stanno come ci sta il fondale di un videogioco. Sono delle quinte immobili o poco più.

Manca peraltro anche la bella lingua sperimentale dei Fenoglio e dei Pavese (e anche di questa senti  la mancanza, eccome!), che quando usavano il sermo humilis mica lo inserivano come erudita citazione storica, come fa invece In territorio nemico quando incastona dialoghi in meneghino o in napoletano o in ciociaro.

No, il loro sermo humilis era il sale & il pepe di una lingua letteraria nuova, che ancora oggi ti prende alla gola per la sua arditezza lessicale e sintattica.



Qui, come già detto, il dialetto è solo l'ingrediente di una sceneggiatura in costume. Della serie: evitiamo che le comparse del film che stiamo girando e che si ambienta ai tempi dell'imperatore Nerone si tradiscano e mostrino (orrore!) l'orologio al posto.

Dal punto di vista, poi, della tecnica narrativa, il romanzo è in prevalenza basato sul discorso diretto, ovverosia "l'idea vecchio stampo del pensiero di un personaggio come discorso fatto a se stesso, una sorta di colloquio interiore".

La modalità più semplice e convenzionale, insomma, di raccontare l'interiorità.  




gennaio 16, 2015

LA SICILIA RACCONTATA DA TERESA CARPINTERI



La Sicilia... la donna. Sono forse questi lo Scilla e Cariddi delle 6 autrici siciliane a cui Donatella La Monaca ha dedicato il saggio di cui abbiamo parlato in un altro post? E che noi stiamo qui rileggendo per ricavarne altri spunti e visualizzare altri scorci?

La domanda va messa necessariamente in standby, perché già il solo sbilanciarsi a parlare di letteratura femminista per alcune di queste scrittrici può scatenare  polemiche.
Procediamo perciò a piccoli passi e chiediamoci per cominciare: quanta e quale Sicilia c'è in queste sei autrici che, messe in fila una dopo all'altra, con la loro vita brillante, i loro premi, i loro successi editoriali occupano un arco di tempo lungo un secolo?




Teresa Carpinteri, la più "vecchia" del sestetto, è oggi in un cono d'ombra. Mentre la sorella, Laura Di Falco ha di recente ricevuto l'onore di riedizioni plurime (VerbaVolant), le opere di Teresa Carpinteri sono confinate  su scaffali polverosi (Mare Magnum ne è sprovvisto, ma c'è invece una copia della Dionea -del 1971- in un circuito alternativo).

Del 1959 il suo primo romanzo (La signora di Belfronte, premio Corrado Alvaro), del 1983 l'ultimo, Siracusa città fortificata.

Già questi due titoli suggeriscono il radicamento in terra siracusana della sua letteratura. D'altronde, pur vivendo sul continente, come la sorella, ella pubblicherà quasi sempre con Flaccovio.
Con la Signora di Belfronte (che uscì a un anno di distanza dal Gattopardo) siamo nella memorialistica familiare.
Con la Dionea, del 1971, l'autrice sceglie come voce narrante un pescatore di Ortigia e ci introduce in un mondo di desolazione e di delirio, con sullo sfondo l'immagine di una donna inquietante che porta il nome di una pianta carnivora. Troppo scarna l'antologia apprestata da Donatella La Monaca per capire dove va a parare il romanzo (un riassunto dell'opera avrebbe giovato). Ma basta per intuire che abbiamo di fronte una prosa raffinata e matura di grande interesse.

Il penultimo romanzo, L'Eringio, del 1978, è dedicato alla vita di una donna in rotta di collisione con il mondo familiare e alla ricerca di una identità autonoma. È la biografia romanzata della poetessa siciliana Mariannina Coffa Caruso. La voce narrante diventa questa volta, dunque, femminile. Ma più che l'impianto ottocentesco evidenziato da La Monaca (a cui siamo costretti a prestar fede), colpisce nelle poche pagine antologizzate l'urgenza di una presa di posizione polemica che a volte produce suoni stridenti.

Una scrittrice, Teresa Carpentieri, che, pur dando la sensazione di appartenere a un altro mondo, rispetto a quello letterario maschile di quegli anni, con i suoi conati sperimentali e/o militanti, fa scattare in noi la voglia postuma di conoscerla più da vicino.


SEI SCRITTRICI SICILIANE fra oblio e impegno civile



Cos'hanno in comune?


Teresa Carpinteri, Maria Rosa Cutrufelli, Livia De Stefani, Laura di Falco, Silvana Grasso, Silvana La Spina, Dacia Maraini.

Sono tutte siciliane. E sono tutte donne.
Può bastare? Evidentemente sì. O almeno, è bastato a Donatella La Monaca, giovane ricercatrice palermitana autrice di Scrittrici siciliane del Novecento (Flaccovio 2008).
Un libro utile  per chi non è siciliano e non conserva il ricordo di alcune di queste autrici, sulle quali è ormai calato il silenzio
Un libro utilissimo soprattutto per tutti coloro a cui a un certo punto prende il buzzo di andare a vedere se per caso  essere un'AUTRICE significa qualcosa di diverso dall'essere un autore.


Peccato solo che la nostra ricercatrice abbia precipitato le cose. Poteva fare un libro migliore. Nel saggio manca uno straccio di bibliografia. Per cui chi non conosce le autrici non è neanche in grado di capire se siano state solo delle stelle filanti nel firmamento letterario italiano o qualcuno fra i critici altolocati le abbia prese sul serio, sudando sulle loro pagine e sdoganandole dalla pura cronaca.

Ma oltre a quelli su elencati, altri significativi tratti accomunano le 6 autrici, suggerendo di rimbalzo, come vedremo, qualche interessante riflessione sul nostro sistema letterario.
Cominciamo ad elencarli, scusandoci in anticipo se qualcuno troverà un po' pedante questa ricognizione preliminare.

Oltre ad essere siciliane e donne, sono state tutte prolifiche autrici di successo, nel senso che hanno pubblicato ad abundantiam, si sono piazzate in svariati concorsi letterari e a volte sono state pluritradotte.

Silvana La Spina, che è una delle più giovani (potremmo dire che è figlia di questo tempo), nel suo paniere ha un premio Mondello, un premio Chiara, un premio Viareggio (finalista), un Grinzane Cavour, un premio Vittorini. I romanzi che ha scritto ad oggi, a partire dal 1987, sono undici. Pubblica con Bompiani e con Mondadori. Ha un suo blog.

Silvana Grasso, meno giovane (n.1952) anche lei ha collezionato un Mondello, due Grinzane Cavour, un Vittorini. I romanzi che ha scritto, a partire dal 1994, sono dieci. Pubblica con Einaudi e Rizzoli.

Maria Rosa Cutrufelli (n. 1946) è stata finalista al premio Strega e al premio Volponi e dal 1990 ha scritto sette romanzi. Ma la sua produzione letteraria è molto più vasta. Pubblica con Frassinelli, Mondadori, Longanesi, Marco Tropea etc.

Dacia Maraini (nata 1936) la più nota, appartiene già ad un'altra generazione. Se ci limitiamo ai romanzi, ha scritto, dal 1962, sedici opere. Ma la sua attività letteraria è molto più ampia. Anche lei ha collezionato vari riconoscimenti ufficiali, fra cui lo Strega nel 1999. Ha pubblicato con Einaudi, Bompiani, Rizzoli, Mondadori.

Con Laura Di Falco (pseudonimo di Laura Carpinteri), nata nel 1910, entriamo in limbo letterario che solo adesso si sta cominciando a squarciare. A suo tempo  -negli anni '50 e a seguire- godette dello stesso favore che ha accompagnato le più giovani scrittrici sopra citate: due volte finalista allo Strega (1959 e 1976), ha ricevuto in extremis il premio Vittorini. Al suo attivo ci sono nove romanzi, di cui alcuni in corso di riedizione. In vita ha pubblicato con Mondadori e con Rizzoli.

Livia De Stefani, palermitana, classe 1913, è stata insignita anche lei di riconoscimenti. Ma con lei il tempo è stato impietoso: non ha neanche una voce su Wikipedia, malgrado il consenso ottenuto dal suo primo romanzo, La vigna di uve nere, Mondadori 1953. Cinque i  romanzi al suo attivo (scritti fra il 1953 e il 1991), più due volumi di racconti. Ha pubblicato con Mondadori, Rizzoli e Vallecchi.

Per finire, eccoci a Teresa Carpinteri. È la sorella più anziana (1907) di Laura Di Falco. Meno prolifica delle scrittrici precedenti (solo 5 romanzi, scritti fra il 1959 e il 1983), anch'essa premiata in vita, il suo ricordo nel mondo  d'oggi è ormai molto flebile. Ha pubblicato con Carucci, Sciascia e Flaccovio.



Ma le assonanze fra queste 6 autrici che in sequenza coprono almeno tre generazioni (anteguerra: Carpinteri/De Stefani/Di Falco; interguerra: Maraini; dopoguerra Cutrufelli/ Grasso/La Spina)  non finiscono qui. Anzi. È impressionante, a ben vedere, quante assonanze si possano identificare.
Adottando un punto di vista più tipico dello storico sociale che non del critico letterario, ci chiediamo intanto a che ceto sociale appartenessero.

Le sorelle Carpinteri e Di Falco appartenevano a una famiglia più che benestante di proprietari terrieri. Livia De Stefani usciva dal ceto dei proprietari terrieri di antico lignaggio feudale. Dacia Maraini era la rampolla di una  prestigiosa famiglia siciliana.
Con Maria Rosa Cutrufelli, Silvana Grasso e Silvana La Spina si entra nella contemporaneità e, inspiegabilmente, le fonti (wikipedia) tacciono sull'origine familiare.

In compenso si dilungano sull'attività professionale di tutte queste scrittrici. 
E perciò veniamo a sapere che Teresa Carpinteri, dopo aver fatto seri studi universitari a Catania e a Pisa, si trasferisce a Roma e si dedica all'insegnamento superiore, scrivendo per diverse riviste letterarie.
La sorella, Laura Di Falco, dopo essersi laureata in filosofia a Pisa, si trasferisce anche lei a Roma e anche lei si dedica all'insegnamento.
Pure Livia De Stefani sceglie di lasciare la Sicilia, dove ha compiuto privatamente seri studi letterari, e si trasferisce a Roma, dove collabora con riviste e quotidiani, dedicandosi anche a una intensa attività editoriale.
La biografia di Dacia Maraini, a parte le vicende belliche in cui fu coinvolta, non differisce dallo schema che abbiamo sommariamente tracciato: trasferimento dalla Sicilia a Roma, intensa attività di collaborazione con riviste prestigiose e poi l'attività scrittoria nel campo del romanzo e del teatro.
Con la Cutrufelli  il profilo professionale si modernizza sensibilmente. Intanto studia in quella fucina di giovani scrittori che, negli anni a seguire sarà l'università di Bologna e per giunta studia con Luciano Anceschi, il padre spirituale del Gruppo '63.  Essendo poi Maria Rosa del 1946, partecipa in pieno all'epopea femminista degli anni '70 e quindi scrive molto di saggistica e d'attualità. Smessi gli abiti della letterata pura, caratteristici delle altre scrittrici siciliane più anziane di lei, scrive anche radiodrammi per la RAI. Tuttavia, come le altre, volta le spalle alla Sicilia e va a vivere e a lavorare a Roma.
Silvana Grasso ha invece più salde radici siciliane. Non solo in Sicilia ci vive e ci insegna. Ma vi svolge anche attività politica. Segno forse di una inversione di tendenza rispetto agli anni in cui la capitale calamitava scrittori, registi, attori e persino critici. Di formazione umanistica come le altre scrittrici che abbiamo biografato, eccelle nella traduzione di classici greci.
Con Silvana La Spina il processo di allontanamento dalla capitale, fino ad allora prescelta per le occasioni che offriva agli intellettuali del sud, si completa. La scrittrice, che per parte di madre è di origine padovana, vive prevalentemente a Catania, dove svolge fra le altre cose attività di opinionista.

Le vicende biografiche delle sei scrittrici qui sommariamente riepilogate forse hanno suggerito l'idea di una cesura generazionale. Si tratta ora di entrare in più intimo contatto con la carne viva di cui sono fatte le sei scrittrici accumunate dallo studio di Donatella La Monaca, e di vedere se la Sicilia è per tutte loro un comune denominatore "forte".