Basta il fatto che In territorio nemico sia stato scritto da 115 e rotte mani per farci spalancare la bocca ed esclamare:
"Per Giove, questo sì che è un grosso passo avanti. Allora tutto non è perduto. Il romanzo non è morto... alleluia!"?
"Per Giove, questo sì che è un grosso passo avanti. Allora tutto non è perduto. Il romanzo non è morto... alleluia!"?
Ironia a parte, non credo proprio che si debba misurare In territorio nemico sulla base del METODO con cui è stato composto (SIC, scrittura collettiva industriale).
Anche perché il metodo non è poi così
originale, trattandosi, in fondo, di una versione sofisticata e letteraria di un social network.
Sono troppo tranciante?
non credo, dato che hanno cominciato loro. O per lo meno, ha cominciato uno di
loro, Michele Marcon, che nei confronti degli autori more singulo (fra i quali io mi annovero, anche se il mondo come
autore non mi ha ancora del tutto identificato) si è espresso così:
Tu che credi di essere un (grande) autore chiuso nella tua stanzetta, e ti fai un sacco di pippe mentali mentre scrivi un (grande) romanzo rivoluzionario che probabilmente non leggerà mai nessuno (e che altrettanto probabilmente rimarrà un tentativo velleitario). Ecco, tu non sei più nessuno. Tu non esisti più. Tu, stereotipo del (grande) autore, oggi sei un operaio che insieme ad altri operai deve collaborare per riuscire a realizzare un prodotto. Certo, questo prodotto non è mica un prodotto qualsiasi, ma è un’opera dell’intelletto – che dico – degli intelletti!
Un simile disprezzo di
tipo giacobino (con echi operaistici
che rincarano la dose) ricorda il Gruppo
'63 quando sfotteva i romanzieri del momento, etichettandoli come Liale. Personalmente a me ricorda altri
scenari più cupi, ovverosia i crucifige dell'epoca sessantottina,
quando il Movimento se la prendeva con gli intellettuali, a prescindere da colore,
ideologia, età, ruolo etc. Bastava che tu studiassi cose che non c'entravano con la classe e/o scrivessi un romanzo ed eri
etichettato come libidinosamente borghese.
Non c'è niente da fare.
L'Italia era settaria ai tempi di Dante ed è rimasta settaria ai tempi di
Michele Marcon!
Ma lasciamo perdere il
SIC e vediamo se questo In territorio
nemico merita tutta la grancassa che lo ha accompagnato. In altre
parole, valutiamolo per quello che è. E cioè un romanzo.
Prima
constatazione: l'opera parla della Resistenza
(dall'8 settembre al 25 aprile). Ma non ha niente a che fare con i romanzi di
allora (Calvino, Fenoglio, Pavese, Vittorini...) che narravano la resistenza
quando il cadavere era ancora caldo.
Difatti, correttamente, gli autori lo
definiscono un romanzo storico e su questa strada potremmo anche seguirli,
visto che l'opera ottempera ai requisiti indicati dalla Historical Novel Society. Ovverosia è stato scritto almeno cinquant'anni
dopo gli eventi descritti ed è stato scritto da autori che all'epoca di tali
eventi non erano ancora nati, e quindi hanno dovuto documentarsi su di essi.
Le vicende ruotano intorno al destino di tre personaggi: Matteo Curti,
un sottufficiale di marina che diserta e attraversa l'Italia devastata dalla
guerra nel tentativo di raggiungere la sorella Adele, imparando a combattere e
prendendo coscienza della situazione del paese. Adele Curti, una giovane sposa
borghese che, abbandonata dal marito, sopravvive nella Milano bombardata
entrando in contatto prima col mondo operaio, poi con quello dei Gruppi di
Difesa della Donna e addirittura con quello dei GAP; suo marito Aldo Giavazzi, un ingegnere
aeronautico che, per paura di venire deportato, si nasconde nella cascina di
famiglia scivolando in una progressiva e visionaria follia.
Valutato come romanzo
storico, l'opera ti fa rimpiangere i romanzi che storici non lo sono e nella
fattispecie quelli del cosiddetto neo-realismo. Ovvero le opere
"autentiche", scritte con passione, da un autore in qualche modo
coinvolto nei fatti che narrava (anche se era un autore singolo e come tale era incline, secondo Marcon, a farsi un sacco di pippe. Cosa che nel caso di Cesare Pavese poteva un tantino essere anche vero).
Più che romanzo storico
In territorio nemico si direbbe in
realtà un romanzo d'azione, scritto in modo convenzionale. Scorrevole, non c'è
niente da dire. Ma è un romanzo in cui i personaggi... che ci sono e hanno
tanto di nome, cognome, sesso, professione... quando pensano non ti danno
affatto l'impressione di farlo e quando agiscono non ti danno affatto
l'impressione di agire sullo sfondo di una realtà sociale in movimento, in
tensione, com'era quella del '43-44-45.
E' vero, c'è la
fabbrica, c'è la linea gotica etc. etc. Ma queste realtà dell'epoca in cui si
sono svolti i micro eventi del romanzo, nel romanzo ci stanno come ci sta il
fondale di un videogioco. Sono delle quinte immobili o poco più.
Manca peraltro anche la
bella lingua sperimentale dei Fenoglio e dei Pavese (e anche di questa senti la mancanza, eccome!), che quando usavano il sermo
humilis mica lo inserivano come erudita citazione storica, come fa invece In territorio nemico quando incastona
dialoghi in meneghino o in napoletano o in ciociaro.
No, il loro sermo humilis era il sale & il pepe di una lingua letteraria nuova, che ancora oggi ti prende alla gola per la sua arditezza lessicale e sintattica.
Qui, come già detto, il dialetto è solo l'ingrediente di una sceneggiatura in costume. Della serie: evitiamo che le comparse del film che stiamo girando e che si ambienta ai tempi dell'imperatore Nerone si tradiscano e mostrino (orrore!) l'orologio al posto.
Dal punto di vista, poi, della tecnica narrativa, il romanzo è in prevalenza basato sul discorso diretto, ovverosia "l'idea vecchio stampo del pensiero di un personaggio come discorso fatto a se stesso, una sorta di colloquio interiore".
La modalità più
semplice e convenzionale, insomma, di raccontare l'interiorità.