marzo 01, 2015

SCRITTURA INDUSTRIALE COLLETTIVA: un FLOP?



Basta il fatto che In territorio nemico sia stato scritto da 115 e rotte mani per farci spalancare la bocca ed esclamare: 

"Per Giove, questo sì che è un grosso passo avanti. Allora tutto non è perduto. Il romanzo non è morto... alleluia!"?



Ironia a parte, non credo proprio che si debba misurare In territorio nemico sulla base del METODO con cui è stato composto (SIC, scrittura collettiva industriale).

Anche perché il metodo non è poi così originale, trattandosi, in fondo, di una versione sofisticata e letteraria di un social network.

Sono troppo tranciante? non credo, dato che hanno cominciato loro. O per lo meno, ha cominciato uno di loro, Michele Marcon, che nei confronti degli autori more singulo (fra i quali io mi annovero, anche se il mondo come autore non mi ha ancora del tutto identificato) si è espresso così:

Tu che credi di essere un (grande) autore chiuso nella tua stanzetta, e ti fai un sacco di pippe mentali mentre scrivi un (grande) romanzo rivoluzionario che probabilmente non leggerà mai nessuno (e che altrettanto probabilmente rimarrà un tentativo velleitario). Ecco, tu non sei più nessuno. Tu non esisti più. Tu, stereotipo del (grande) autore, oggi sei un operaio che insieme ad altri operai deve collaborare per riuscire a realizzare un prodotto. Certo, questo prodotto non è mica un prodotto qualsiasi, ma è un’opera dell’intelletto – che dico – degli intelletti!

Un simile disprezzo di tipo giacobino (con echi operaistici che rincarano la dose) ricorda il Gruppo '63 quando sfotteva i romanzieri del momento, etichettandoli come Liale. Personalmente a me ricorda altri scenari più cupi, ovverosia i crucifige dell'epoca sessantottina, quando il Movimento se la prendeva con gli intellettuali, a prescindere da colore, ideologia, età, ruolo etc. Bastava che tu studiassi cose che non c'entravano con la classe e/o scrivessi un romanzo ed eri etichettato come libidinosamente borghese.

Non c'è niente da fare. L'Italia era settaria ai tempi di Dante ed è rimasta settaria ai tempi di Michele Marcon!

Ma lasciamo perdere il SIC e vediamo se questo In territorio nemico merita tutta la grancassa che lo ha accompagnato. In altre parole, valutiamolo per quello che è. E cioè un romanzo.

Prima constatazione: l'opera parla della Resistenza (dall'8 settembre al 25 aprile). Ma non ha niente a che fare con i romanzi di allora (Calvino, Fenoglio, Pavese, Vittorini...) che narravano la resistenza quando il cadavere era ancora caldo. 
Difatti, correttamente, gli autori lo definiscono un romanzo storico e su questa strada potremmo anche seguirli, visto che l'opera ottempera ai requisiti indicati dalla Historical Novel Society. Ovverosia è stato scritto almeno cinquant'anni dopo gli eventi descritti ed è stato scritto da autori che all'epoca di tali eventi non erano ancora nati, e quindi hanno dovuto documentarsi su di essi.




Le vicende ruotano intorno al destino di tre personaggi: Matteo Curti, un sottufficiale di marina che diserta e attraversa l'Italia devastata dalla guerra nel tentativo di raggiungere la sorella Adele, imparando a combattere e prendendo coscienza della situazione del paese. Adele Curti, una giovane sposa borghese che, abbandonata dal marito, sopravvive nella Milano bombardata entrando in contatto prima col mondo operaio, poi con quello dei Gruppi di Difesa della Donna e addirittura con quello dei GAP; suo marito Aldo Giavazzi, un ingegnere aeronautico che, per paura di venire deportato, si nasconde nella cascina di famiglia scivolando in una progressiva e visionaria follia.

Valutato come romanzo storico, l'opera ti fa rimpiangere i romanzi che storici non lo sono e nella fattispecie quelli del cosiddetto neo-realismo. Ovvero le opere "autentiche", scritte con passione, da un autore in qualche modo coinvolto nei fatti che narrava (anche se era un autore singolo e come tale era incline, secondo Marcon, a farsi un sacco di pippe. Cosa che nel caso di Cesare Pavese poteva un tantino essere anche vero).

Più che romanzo storico In territorio nemico si direbbe in realtà un romanzo d'azione, scritto in modo convenzionale. Scorrevole, non c'è niente da dire. Ma è un romanzo in cui i personaggi... che ci sono e hanno tanto di nome, cognome, sesso, professione... quando pensano non ti danno affatto l'impressione di farlo e quando agiscono non ti danno affatto l'impressione di agire sullo sfondo di una realtà sociale in movimento, in tensione, com'era quella del '43-44-45.
E' vero, c'è la fabbrica, c'è la linea gotica etc. etc. Ma queste realtà dell'epoca in cui si sono svolti i micro eventi del romanzo, nel romanzo ci stanno come ci sta il fondale di un videogioco. Sono delle quinte immobili o poco più.

Manca peraltro anche la bella lingua sperimentale dei Fenoglio e dei Pavese (e anche di questa senti  la mancanza, eccome!), che quando usavano il sermo humilis mica lo inserivano come erudita citazione storica, come fa invece In territorio nemico quando incastona dialoghi in meneghino o in napoletano o in ciociaro.

No, il loro sermo humilis era il sale & il pepe di una lingua letteraria nuova, che ancora oggi ti prende alla gola per la sua arditezza lessicale e sintattica.



Qui, come già detto, il dialetto è solo l'ingrediente di una sceneggiatura in costume. Della serie: evitiamo che le comparse del film che stiamo girando e che si ambienta ai tempi dell'imperatore Nerone si tradiscano e mostrino (orrore!) l'orologio al posto.

Dal punto di vista, poi, della tecnica narrativa, il romanzo è in prevalenza basato sul discorso diretto, ovverosia "l'idea vecchio stampo del pensiero di un personaggio come discorso fatto a se stesso, una sorta di colloquio interiore".

La modalità più semplice e convenzionale, insomma, di raccontare l'interiorità.